Nicola Busato è un mio ex studente del liceo artistico, quando insegnavo a Valdagno (primi anni novanta, se ricordo bene). Ora è laureato in lettere, lavora in una multinazionale e pubblica, anonima e aperiodica, Era, una "minirivista" fotocopiata "di poesia e prosa", che distribuisce in proprio. Mi ha spedito questa precisa lettura de La distanza immedicata. Gliela pubblico con sicero affetto e stima.
«Cominciamo dall'inizio: "poesia era l'enorme/vuoto...", composizione che mi ricorda molto il "viaggio" all'inizio del film 2001: Odissea nello spazio di Kubrick: un vuoto (buio) pervaso soltanto dalla musica di Ligeti (la poesia) per piombare poi, saltando tutta la naturale evoluzione (descritta invece nei tuoi versi) all'uomo, all'osso (il lampo, la madre) fino all'astronave (l'area del pentagono). Ma io, in questo ultimo passaggio: area del pentagono - agonìa, vedo un iter della nostra storia: Positivismo (pentagono, scienza) - Romanticismo, Decadentismo, Esistenzialismo (agonia, psicanalisi). E, per tornare all'inizio: poesia come Principio e come Fine? Cioè come madre? radice? seme? terra? e poi ancora vuoto?
Le parole poi. Ho fatto un'operazione alquanto accademica per quanto mi riguarda. "La distanza immedicata'" è una raccolta tenuta insieme da un concept che, allo stesso tempo, la suddivide in capitoli, ciascuno chiamato col nome di un corso d'acqua. Il "tema" ricorrente dell'acqua è forte e coinvolge-condiziona tutta la lettura, incappando a ragione nel lessico che hai scelto, coerentissimo, come elencato di seguito: mare (usata 2 volte), fiume (usata 6 volte), sgoli, ristagni, schiumi, spiovi, pozza, diluvio, melma, ponte, affondando, piovi, acqua (usata 2 volte), piova (usata 3 volte), argine, subacquea, nuoto, acquitrini, riva, corrente, pozzo.
Quindi mi sono chiesto se alla lunga ciò non fosse un parallelo del "mare montaliano": la vita, quella vita altrui, degli altri, del dover-essere, che qui rimane sempre e comunque distante e immedicata (utopia).
Questo è particolarmente espresso, secondo me, in Ouse 1 (v. p. 59) ... corpo, cosa estesa e dunque peso, ostile al nuoto... in sapor di suicidio (consapevolezza dell'utopia), anche per la di lì a poco (2) citata Ofelia.
Per trovare un'eventuale risposta alla domanda di cui sopra, sono tornato sul testo, alle parole, perché sempre, matematicamente, subito dopo o poco prima di queste "parole d'acqua", compare lui: l'Uomo (volendo un parallelo anche con l'uomo di 2001: Odissea nello spazio).
A questo punto, per me è stato molto curioso scoprire in che termini tu hai parlato e descritto l'uomo all'interno di queste tue poesie. Ne risulta una pura anatomia dell'uomo, che compare sempre e soltanto sottoforma di "pezzi", frattaglie, particolari, quasi un essere ancora incompiuto e in divenire... Qui l'elenco, sempre fedele al tuo testo, è un po' più lungo, ma secondo me interessante: mano (usata 6 volte), piede (usata 2 volte), cuore (usata 3 volte), bocca (usata 6 volte), palmo, schiena (usata 3 volte), pelle (usata 2 volte), capo, ventre, petto (usata 2 volte), occhio (usata 4 volte), midollo, viso, ciglia, iride, palpebra (usata 2 volte), polso, stomaco, lingua (usata 4 volte), natica, sangue, denti, braccio, seno, polmoni, bronchi, pancia.
Non so se ti eri accorto di questo aspetto del libro in cui l'anatomia è proprio il succedaneo clinico della figura umana romanticamente intesa: un essere umano ridotto a particolari del suo essere fisico, che per forza di cose escludono riferimenti più "spirituali" dell'umana realtà e che quindi rendono questo Uomo un mero Oggetto nelle tue mani (versi) e quindi agli occhi della poesia e del lettore.
Un Uomo come Corpo: Specie Umana, ontologicamente intesa (anche qui rimandi al solito film?!)... solo corpo che formicola giù... (perché ostile al nuoto?!).
L'uso delle parole poi caratterizza ulteriormente, all'interno di questo binomio lessicale: acqua-uomo, il capitolo intitolato Stige, in cui l'atmosfera si fa più precisa e delineata, in una sola parola: medievale. Frammenti come: parto, untori, guerra, ratti, sottoscala, sloga la lingua, sui fuochi le anime in rivolta, gravida, elemosina, contribuiscono appieno e diversamente dagli altri capitoli, a raffigurare al lettore un ambiente ben preciso e fosco, inquieto, di natura dantesca ma solo per l'ambientazione storico-paesaggistica che è culturalmente in noi.
A questo punto, l'attenta rilettura del testo ha portato in luce e alla mia attenzione un'altra "coincidenza", di cui magari, come per tutto il resto, del resto, ti chiedo conferma o smentita. Si tratta della coincidenza-parallelismo tra musica e morte. Nella tua opera ho individuato quattro punti precisi (e non di più) in cui, al di là di ogni ragionevole dubbio o coincidenza, il tema della musica si incrocia e sovrappone con quello della morte. Il primo è a pagina 57: "... la foglia si fa musica/ c 'è sempre qualcuno/ lontano/ che muore/ cadendo/ si fa musica/ e muore", il secondo a pagina 79: "... involta al ramo della musica/ davvero la morte allora/ svapora...", il terzo lo trovi a pagina 91: "... e aperta da una lingua mortale/ slabbrata ai margini dei suoni/ come debussy..." e l'ultimo a pagina 95: "e se resiste, lei, è per legati e presti, è per la musica [...] invecchia [...] l'agra malattia [...] guerra [...]".
Lo ammetto: oltre non vado. Qui, su questi due richiami, la mia immaginazione si ferma... Non mi viene che in aiuto, volendolo forzare però, solo il film di Kubrick: la musica e la morte, l'eterno ritorno al vuoto (enorme) dell'inizio, che è poesia.
Ti chiedo di dirmi cosa ne pensi e, ovviamente, di dirmi la verità di tutto quanto questo fin qui descritto... va' che bel verso! Mi rimane poi una domanda ulteriore su una figura, un termine, da te usato spesso, sia in questo che nel libro precedente: l'orlo. Cos'è per te l'orlo! Un fantasma? Quale?»